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Articolo di Elena Grassi, gennaio 2019

Le persone nascono con i destini e le vocazioni più diverse ed originali, solo che di norma non lo sanno. Spesso queste vocazioni non rientrano negli schemi preconfezionati che la nostra società ci mette a disposizione.

La mia vocazione, per esempio, almeno per come la posso comprendere in questo momento, è fare in modo che il grande ruolo che gli animali svolgono al nostro fianco e sul pianeta in genere venga riconosciuto e che di conseguenza essi vengano trattati con il rispetto e la riconoscenza che meritano. Ultimamente, sempre più, la mia chiamata si sta focalizzando su un aspetto particolare della relazione uomo-animale, quello della fine della vita. Non propriamente una vocazione facile da tradurre in pratica e, come dire, “mettere sul mercato”.

Rimasi stupefatta, anni fa, nello scoprire di trovarmi a mio agio accanto ai morenti, a patto che non fossi obbligata a fare finta che tutto andasse “bene” (in realtà, andava davvero tutto bene, ma non nel senso che si intende comunemente) o che fossero destinati a guarire. Stare accanto a loro mi dava un senso di pace, e quelle poche volte che fu possibile parlare con loro, o a volte con i loro cari, in maniera aperta e franca, della loro situazione ed esperienza, le porto impresse indelebilmente nella mia memoria cellulare.

La morte ti mette a nudo

La stessa esperienza l’ho avuta con gli animali, con un senso di pace forse ancora maggiore. Accompagnare gli animali, diversamente che con gli esseri umani, di solito avviene al di fuori di un ambiente ospedaliero. E se non sono sottoposti ad accanimento terapeutico e ad eccessivi attaccamenti, di solito gli animali accettano serenamente la loro condizione, come la vita mi ha dato modo di constatare in maniera diretta.

Mi sono chiesta più volte che cosa mi faccia stare bene accanto ai morenti. Mi sono risposta che è il fatto che lì, in quei momenti, si può toccare con mano il senso più profondo dell’esistenza, il nucleo di ciò che siamo. La morte ci obbliga a guardare in faccia la realtà delle cose, a farci delle domande difficili e a non poter sfuggire. L’imminenza della morte mi fa sentire a contatto con ciò che veramente conta: l’essenza della Vita al di là di ciò che è effimero.

Non mi sono mai trovata a mio agio a conversare del più e del meno, a “ingannare il tempo”, a occuparmi di frivolezze. Mi sono sempre interrogata sulle cose essenziali fin da quando riesco a ricordare. Ma ho sempre trovato poche persone, inizialmente proprio nessuno, con cui parlare di quelle cose. Ma quando ci si trova di fronte alla morte, tutti, davvero tutti, sono obbligati a guardarsi dentro, a meno di non voler prendere la strada della negazione e del rifiuto totale, che però non è foriera di serenità.

Lasciare andare

Gli animali, avendo una vita più breve della nostra, ci danno l’opportunità di “prendere dimestichezza” con questa fase essenziale della vita. È una grossa sfida, certo, e pochi purtroppo, al giorno d’oggi, la raccolgono; ma è anche una grossa opportunità. Un esercizio nel lasciare andare. Un qualcosa che nella nostra cultura rappresenta un disvalore, tanto siamo tutti fortemente impegnati ad accumulare o ad accapparrarci qualcosa, che sia denaro, possessi, stima, posizioni sociali e così via.

Lasciare andare è difficile, lo so bene, soprattutto quando si tratta del nostro animale. Quello stesso che ci ha accompagnato per tanti anni svolgendo il ruolo di una sorta di cuscinetto emozionale verso le vicissitudini della vita: siamo felici, e lui gioisce con noi; siamo tristi o disperati, e lui ci guarda con gli occhi dolci e infila il muso tra le nostre gambe, sviando il nostro sentire verso la tenerezza. Gli animali assorbono le nostre emozioni come delle spugne e noi siamo ben felici, solitamente, di riversarle su di loro, di norma ignari degli effetti che queste possono avere sul loro benessere e sulla loro salute.

Uno scambio di ruoli

Ma viene a un certo punto il momento in cui l’animale si fa anziano, o malato, o entrambe le cose; è indebolito, vulnerabile, e non è più in grado di sorreggerci come ha fatto generosamente per tanto tempo. Ci chiede di cambiare i nostri ritmi, di adeguarci ai suoi tempi rallentati. Di ascoltarlo di più, di prenderci cura di lui. Di essere attenti alle sue esigenze, molto più di prima. Ci chiede, insomma, di invertire i ruoli, solo per un po’. Solo per il tempo necessario ad accompagnarlo nell’ultimo tratto. Saremo pronti ad accogliere questa sfida? A rallentare i nostri ritmi, ad allargare i nostri spazi, ad ascoltarlo, ad accudirlo, a prenderci i tempi necessari nonostante tutto e tutti, a prendere i provvedimenti dovuti in termini logistico/organizzativi, a volte anche finanziari, per garantirgli una vecchiaia e un fine vita sereni?

E siamo pronti, nella fase finale, ad affrontare la nostra paura della morte, lo spettro della tanto paventata sofferenza, e a chiederci davvero chi ha paura, e chi sta soffrendo?

Uscire dal solco del pensiero comune

Sono passaggi difficili, a livello interiore, quelli che dobbiamo affrontare per poter accompagnare il nostro animale verso la fine della sua vita senza cadere nel solco dell’abitudine socialmente accettata e promossa, e del luogo comune. Di norma sono passaggi che non si realizzano dalla sera alla mattina. Occorre un periodo di preparazione, la capacità di un ascolto profondo di sé e dell’altro, la voglia di mettersi in gioco e un atto di volontà. Ci possono essere momenti di crisi, di sconforto, di stanchezza, di senso di solitudine e incomprensione rispetto a chi ci sta intorno. A volte ci può sembrare che il processo di morte sia infinito e allora insorgono i dubbi e l’ansia, che rischia, trasmettendosi all’animale, di complicare ancor più le cose.

Ed è così che mi sono sentita chiamata ad assistere chi desidera farsi buon custode del proprio animale nell’ultima fase della vita e suo accompagnatore nella fase della morte. Io so che la morte dell’animale può essere vissuta con gratitudine e gioia, e la mia buona stella mi ha fatto incontrare qualche bella, seppur rara, persona umana che condivide questo mio sentire, con cui sono potuta crescere su questo percorso, e vorrei che tutti potessero sperimentarlo. Per il bene di quell’animale in primo luogo, per il bene del suo custode umano, e con essa anche di tutti gli altri animali che successivamente entreranno nella sua vita. E per il bene generale, poiché ogni passo avanti interiore, ogni ampliamento di coscienza, è un aiuto all’evoluzione dell’umanità e del cosmo intero verso un’era di Amore.

Coltivare la gratitudine

Vorrei che il ricordo della morte dell’animale, sebbene legato alla tristezza di doverlo lasciare e di non averlo più fisicamente vicino, rimanesse associato a tanta tenerezza, amore, senso di completezza e di condivisione, e tanta, tanta gratitudine, in una miscela di dolce-amaro nella quale però, alla fine, prevale la serenità.

Considero un privilegio e un onore entrare, per quanto necessario, in punta dei piedi, nell’intimità della relazione fra chi mi consulta e il suo preziosissimo animale. Il mio compito è quello di dare sostegno, aiutare a ritrovare il proprio centro quando lo si è momentaneamente perso, assistere nel rimanere connessi col cuore al sentire dell’animale senza lasciarsi trascinare dai voli della mente, nell’essere presenti per lui. So quanto è importante trovare un ascolto, qualcuno che ci capisca e che abbia già fatto quell’esperienza prima di noi, per poterci sentire accolti e ascoltati, e ritrovare quindi la sicurezza del proprio sentire e della propria determinazione.

Nel mio piccolo, vorrei contribuire ad alzare il numero di coloro che sono disposti a raccogliere quella sfida.